Ai teenager di oggi la parola Festivalbar non dice assolutamente nulla, eppure per i figli degli anni ‘70 e ‘80 - dai, aggiungiamo anche inizi anni ‘90 - il Festivalbar era il sinonimo per antonomasia dell’estate. Di solito la prima serata andava in onda quasi in concomitanza con la fine della scuola, talvolta anche prima. Per esempio, nell’edizione del 1999 la prima puntata era a Padova e per tre ragazzine (più una a caso che voleva farsi questa esperienza accanto alle sue uniche amichette dell’epoca) quel 29 maggio era un appuntamento agognato, desiderato più della partenza per il mare. Quella sera ci sarebbero stati come ospiti i Backstreet Boys, la band del momento. Che poi quella sera non si presentarono per non meglio precisati imprevisti, ma questo è un altro discorso. Nonostante la delusione, andare al Festivalbar ed essere tra il pubblico era comunque una grande gioia: tanti artisti sul palco a pochi metri da te che cantavano i tormentoni dell’estate era sinonimo di libertà, di voglia di divertirsi, di farsi un tuffo in mare per sconfiggere il caldo e partite a pallone sulla sabbia. Poi, all’improvviso, dopo 43 anni da quella prima edizione del 1964, il Festivalbar ha abbandonato mestamente il palinsesto delle reti Mediaset. Cosa si è rotto? Perché la magia è scomparsa?

In realtà le ragioni sono tutt’altro che inspiegabili e vanno ricercate nel cambiamento delle proposte televisive. Fino a quando i talent non esistevano o venivano snobbati e trattati come programmi di serie B, i contenitori musicali veri e proprio della televisione italiana erano il Festival di Sanremo, il Festival di Castrocaro (ancora in essere ma molto meno popolare), Un Disco Per L’Estate - la cui ultima edizione è stata nel 2003 - e, appunto, il Festivalbar. Solo in quelle trasmissioni si potevano ascoltare le novità musicali della stagione e premiare i pezzi più orecchiabili e, nel caso specifico del Festivalbar, i tormentoni dell’estate. La ricerca del tormentone e la sua consacrazione era esattamente l’idea principale su cui il patron Vittorio Salvetti - al quale, dopo la morte, si è succeduto il figlio Andrea - aveva deciso di costruire nel 1964 il format. Le canzoni vincitrici, nelle prime edizioni, venivano decretate a seconda di quante volte erano state selezionate nei juke-box in tutta Italia. Col passare degli anni, il meccanismo dei jukebox venne chiaramente abbandonato e si decise di stabilire il successo di una canzone prendendo in considerazione le vendite e conteggiando i passaggi sulle emittenti radiofoniche nazionali. Da quando i talent hanno iniziato a spopolare, le etichette discografiche hanno anch’esse iniziato a puntare su questo nuovo mondo, grazie anche alla disponibilità dei social. In realtà, se vogliamo vedere, oggi c’è un contenitore musicale estivo dedicato ai tormentoni, ovvero il Coca Cola Summer Festival. Ma, è inutile negarlo, non ha niente a che vedere con il buon caro Festivalbar.

Attenzione, non sto affermando che il programma musicale itinerante di Italia 1 fosse perfetto; una sua grossa pecca, fino al 2002, è stato l’obbligo di esibizioni in play-back, cosa a mio parere imperdonabile se si sta costruendo un programma volto a sostenere la buona musica. Eppure, nonostante questo problema non irrilevante, a 9 anni dall’ultima finale c’è sicuramente qualche nostalgico che ancora sente la mancanza di questa trasmissione, entrata prepotentemente nel nostro bagaglio estivo quando eravamo adolescenti. Abbiamo già detto che la ragione della sua decadenza è imputabile in gran parte ai talent. Ma dire che è questo il problema che fa uscire il Coca Cola Summer Festival sconfitto clamorosamente nel confronto con il Festivalbar è riduttivo. Il problema è forse la conduzione? Non ne sarei totalmente sicura: la stessa Marcuzzi condusse diverse edizioni del programma di Salvetti dimostrandosi all’altezza del compito. Per quanto mi riguarda, il problema sta nell’atteggiamento sempre più superficiale che il pubblico ha verso la musica e gli standard musicali che si stanno abbassando in un modo più che preoccupante. Non pretendo che ogni anno la canzone vincitrice sia il pezzo rock più bello mai scritto negli ultimi anni: questi, belli o brutti che siano, sono i MIEI gusti. Per fare un esempio, negli anni ‘90 imperversava il teen pop, ovvero canzoni di pop band quali Take That, Backstreet Boys, Spice Girls e altre, e non possiamo di certo dire che le loro fossero canzoni dai testi profondi e complicati. Però, nel bene e nel male, si potevano ascoltare e ci si poteva riconoscere una produzione mirata, coerente, concreta: insomma, un’identità musicale consolidata. Il problema di oggi è che la gente considera la musica sempre più come una forma di entertainment e sempre meno come una forma d’arte. Dall’altra parte, poi, vediamo cantanti sempre più impegnati a passare il loro tempo su Twitter e Facebook per sentirsi più vicini al loro pubblico: la realtà dei fatti è che la maggior parte degli artisti hanno spostato l’attenzione verso i social network per far sentire la loro voce, talvolta anche in modo inappropriato. Correndo il rischio di essere i primi a mettere in secondo piano quella che dovrebbe essere una ragione di vita, ovvero la musica. Ovviamente non tutti sono così e fortunatamente ci sono ancora un sacco di band e musicisti che sanno ancora come si deve fare musica, a cosa dare importanza e cosa tralasciare. Però, se la concezione delle sette note è sempre più superficiale non è (solo) colpa del pubblico e non ci si deve stupire del fatto che i contenitori musicali estivi nati in sostituzione del Festivalbar siano solo delle brutte copie sbiadite. La musica ha bisogno di essere difesa, tutelata e valorizzata. E i primi che possono fare attivamente qualcosa per riportarci alla magia di ascoltare un brano per la sua bellezza e autenticità sono proprio loro, quelli che fanno della musica non solo una passione ma anche un lavoro.

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